NE’ CAINO NE’ ABELE, 2016
Installation views, performance

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Loredana Longo – Né Caino né Abele
di Pietro Gaglianò

“Il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali”
Hannah Arendt – La banalità del male

Essendone parte periferica siamo costretti a osservare la Storia da un punto di vista ambiguo: dal bordo sul quale, condizionati al presente, ci troviamo a percorrerla mentre lei va assumendo la sua forma di specchio. Il riflesso che vi si scorge rimanda l’immagine di una complessa umanità che narra contestualmente una vicenda collettiva e individuale – ogni parte di essa ha a che fare con tutte le altre, in una concatenazione che esclude la possibilità di astenersi, o di rimettere ad altri la responsabilità di come si agisce. È un’unica natura quella umana, e la varietà di tutte le sue articolazioni deve essere considerata come un fattore accidentale che solo sotto determinate circostanze consente di rendersi conto se la propria condotta è criminale oppure no.
Tutta la recente ricerca di Loredana Longo riflette sul paradosso di questa perpetuamente mancata identificazione, una apologia della “banalità del male”, che il secolo scorso e il presente hanno messo allo scoperto ma che rimane ancora un tragico tabù delle società del potere (più disposte ad equivocare che a comprendere la radicalità del pensiero della Arendt). Non è il male a essere banale, è il suo manifestarsi attraverso persone del tutto comuni, persuase di agire nel proprio diritto, a essere sconcertante. Lavori come The Circle e Carpet mettono in gioco la retorica del potere (che è tragicamente povera di senso tanto quanto è intrisa di assertività) e portano in primo piano la coazione all’imbarbarimento che il potere conferisce a chiunque se ne impadronisca. La parola, la lingua stessa, salvifica se usata come strada per la memoria, la denuncia, la testimonianza, la ricostruzione, viene svuotata di senso nella propaganda e negli slogan lanciati per aggregare le collettività attorno a miraggi di supremazia e consolazione.


Coerentemente, in tutto il lavoro prodotto in questi ultimi anni Longo ritualizza i meccanismi di ascesa e caduta del consenso che i tiranni assumono presso le masse, ne scarnifica le strategie fino a renderle vane, ed evidenzia la comune provenienza di chiunque indossi i paramenti del dominio.
A questa circolarità, al compimento ennesimo della metamorfosi attorno alla tavola della Fattoria degli Animali, dove i suini prendono le sembianze degli stessi aguzzini che hanno spodestato, l‘artista non sottrae nemmeno la propria posizione individuale. Loredana Longo rende la sua parte alla spietatezza di questo avvicendamento costringendo nell’ovale del suo viso i lineamenti di dittatori e genocidi e altri protagonisti degli ultimi sanguinari cento anni. La coincidenza di alcuni tratti dei tiranni con quelli dell’artista, sorprendentemente simili e visibili in questa sovrapposizione, pone l’accento sulla totale predominanza di figure maschili nel gioco del potere, dove la “riduzione” alla dimensione femminile delle fisionomie dei carnefici allude a un’altra, parallela, storia di sopraffazione.
Longo mette in scena anche il prodursi di un altro meccanismo, che della circolarità è conseguenza, causa e fondamento: l’antagonismo tra pari, la tensione verso comportamenti competitivi che si traducono in un lotta per la vita (o per la morte dell’altro). La forza sorda prodotta in questa continua frizione è misurabile con lo stesso metro che definisce i doppi ritratti. E mentre la fascinazione per una meccanicità quasi necessaria del male, sintetizzata nella scultura, con la superficie del bronzo e del marmo in forma di monumento, sembra destinata a durare oltre le esistenze dei singoli, rimane sospeso l’interrogativo sull’effettiva inevitabilità di tutto questo.
Come sempre l’arte, e quella di Loredana Longo da anni lo fa tentando ogni dimensione linguistica, non intende enunciare proclami o dichiarare verità infallibili. Le contraddizioni del mondo sono lì, annodate su se stesse, rivelate in alcune loro forme dalla luce dell’arte che si pone contemporaneamente sullo stesso piano della Storia, ma ha uno sguardo alato, più alto rispetto a quel confine della necessità. A volte capace di intravedere, e lasciare presagire, condizioni di speranza.