V FOR VICTORY, 2019
a cura di Lorenzo Madaro
Surplace Space, Varese

Le opere esposte:
VICTORY- YROTCIV
, 2019
Centinaia di bottiglie rotte, scritta con colli di bottiglia, faretto
Surplace Space, Varese

Exhibited artworks:
VICTORY- YROTCIV, 2019
Hundreds of broken bottles, VICTORY written with bottlenecks, spotlight
Surplace Space, Varese

VICTORY-YROTCIV
di Lorenzo Madaro

Il ricorso, in ambito artistico, alla verbo-scrittura e quindi all’essenziale forza comunicativa e visuale delle lettere dell’alfabeto è un’intuizione che in età contemporanea si deve ai futuristi: per primi – con una metodologia ben teorizzata – gli artisti capeggiati da Marinetti hanno infatti compreso l’autonomia del messaggio concettuale e della resa formale della parola (stampata tipograficamente e/o disegnata) slegata dalle immagini. I paroliberi hanno pertanto aperto la strada alle esperienze che i poeti concreti, soprattutto dagli anni Sessanta, hanno saputo formalizzare con ulteriore efficacia, come rivelano anche alcune esperienze italiane, da Mirella Bentivoglio ad Arrigo Lora Totino, e internazionali. Poi c’è la pubblicità, che – come spesso accade – ha da sempre compreso pionieristicamente il valore del messaggio “nero su bianco”. Ma, soprattutto dalla fine dei Sessanta, il ricorso alla scrittura slegata all’immagine è divenuto un punto cardinale fondamentale per molte ricerche artistiche, di comune radice concettuale, in differenti geografie, basti pensare alle esperienze di Joseph Kosuth o di Maurizio Nannucci, che sin dalle opere germinali hanno ribadito lo stretto nesso esistente tra concetto e comprensione dello stesso, nell’orbita della sua medesima fruizione. Scrivere una parola o una frase vuol dire fissare nella mente – di chi la scrive e di chi la legge – un determinato concetto, senza mediazioni, rinunciando alla volontà di stabilire un diaframma tra l’opera e lo spettatore, e – al contrario – evidenziando il desiderio di intervenire nella costruzione di un rapporto diretto tra questi due emisferi. Loredana Longo padroneggia il valore della comunicazione verbo-concreta e comprende il peso specifico delle parole, oltre che delle immagini. A questa grande orbita, densa di diramazioni complesse e precise specificità, che vede la parola al centro dell’operazione artistica, appartiene anche il suo ciclo di opere Victory, che in questa mostra da Surplace assume ulteriori conformazioni, poiché l’artista ha concepito un intervento site-specific.

Victory, da almeno un triennio, caratterizza l’operatività dell’artista come un capitolo maturo del suo lavoro concentrato verso la sintesi di ciò che contraddistingue la sua ricerca, ovvero un’indagine verso le differenti declinazioni culturali, politiche e sociali della realtà. Dopo aver rintracciato dallo straordinario archivio di internet immagini legate alla cronaca, al multiculturalismo, all’immigrazione e ad altri scottanti ambiti politico-sociali del presente, le ha ricostruite incidendo le superfici di grandi velluti e affiancandole, appunto, alla parola Victory. Un paradigma, questo lemma, paradossale, così come la sua posizione nelle immediate vicinanze di scene cruente, legate piuttosto a un’idea di fallimento della società e delle grandi potenze politiche mondiali che di vittoria in senso stretto.
Loredana Longo lavora proprio su quel confine liminale che separa le differenti letture del presente, su quel transitorio ambito in cui vigono le regole del paradosso. Lo fa (spesso) anche con i materiali, facendo convivere opposte fazioni, come ad esempio la preziosità dell’oro e la temerarietà grezza del mattone (nelle sue ultime opere), affiancando ciò che ha valore a ciò che, comunemente, viene considerato senza qualità. D’altronde sono ambiti che appartengono alla sua pratica, vitale prima che artistica, quelli legati alla coesione di registri apparentemente opposti.
Cosa vuol dire vincere? È una delle possibili domande che ci pone quest’opera, le cui lettere sono state invertite per concepire “YROTCIV”, quindi Victory, ma scritto alla rovescia. Sono queste le lettere che il visitatore vedrà entrando nello spazio espositivo: Longo le ha tracciate sulla parete bianca utilizzando i colli delle bottiglie rotte, lasciando sul fronte esterno la parte sfregiata e sul pavimento i residui. Sono possibili reliquie di un mondo distrutto, tracce di un’azione, avvenuta durante l’allestimento dell’opera, che è un altro leitmotiv della pratica artistica di Loredana Longo. La performance, difatti, per l’artista presume un gesto forte, talvolta violento (e quindi di rottura, anche reale, di ciò che è attorno), com’è accaduto per le sue Esplosioni, documentate in un recente volume monografico.

Victory-vittoria: è un vocabolo che solitamente ipotizza agonismo, probabilmente lotta, forse una guerra, in ogni caso una competizione. Vincere è un verbo che appartiene alla collettività sin dagli albori, perché è allegoria di un percorso di confronto, con se stessi e con gli altri. E poi è, soprattutto, un diktat, che il comune sentire reputa imprescindibile nel percorso di ognuno. È con questo dato prestabilito che tutti noi siamo forse stati educati, sin da piccoli, e anche perciò per Loredana Longo la convivenza tra immagini cruente e Victory rientrava, nei suoi lavori precedenti, in una denuncia degli assurdi paradossi che contrassegnano la nostra epoca. In una produzione coeva di sculture, di varie dimensioni, liberandosi dalla forza narrativa delle immagini l’artista si è concentrata esclusivamente sul valore simbolico di questa parola. Le lettere delle sculture Victory sono state poi puntualmente sbrecciate manualmente dalla stessa artista.
Questa volta la paradigmatica parola – pensiamo a quanto siano diffuse le frasi pronunciate dai grandi protagonisti della storia, da Giulio Cesare a Che Guevara, in cui è ricorrente il concetto di vittoria – è stata costruita con i resti di una lunga serie di bottiglie distrutte, perciò si continua a intervenire sulla precarietà della forma per ribadire la centralità di un concetto, che attualmente è forse ormai privo di significato, perché divenuto simbolo di una resistenza collettiva e di una competizione a tutti i costi ormai senza senso. La rinuncia all’immagine, il ricorso a una terminologia che appartiene alla dottrina militare, allo sport e alla vita: Victory, nei frammenti di vetro, vive la precarietà di una enunciazione che è ormai divenuta antitesi di se stessa.