BERSAGLIO UMANO, backstage di al poligono di tiro /backstage at shooting range



OH HAPPY DAYS, stampe lambda

OH HAPPY DAYS - L’ESTETICA DELLA DISTRUZIONE, 2005
Galleria ARTECONTEMPORANEA, Catania
a cura di Rosa Anna Musumeci, con testi di Beatrice Buscaroli, Gianluca Tusini

“L’estetica nella distruzione”: parole sicuramente contraddittorie, ma che trasmettono una visione globale quanto mai attuale, colgono sfumature al di là della mera dimensione formale delle cose, guardando alla sovrapposizione di immagini che rappresentano la coesistenza di fenomeni assolutamente distanti. La continua esposizione mediatica a scene e notizie di guerra, catastrofi, devastazioni, malattie, ha modificato la nostra percezione delle cose, la nostra visione estetica delle cose. I canoni di regolarità, proporzione, equilibrio, non riflettono più criteri contemporanei di bellezza, che sono invece sempre più contrastanti e transitori e generati principalmente dalle martellanti ripetizioni iconiche imposte dal sistema di comunicazione di massa.

Le installazioni di Loredana Longo si nutrono di queste visioni, producendo lavori di insolito effetto estetico e intrisi di sottile crudeltà: gli elementi utilizzati in “Oh Happy Day”, sono abiti da cerimonia nuziale, un tight ed un abito da sposa in tessuto mimetico, privi di una gamba e di una manica, tetro ritratto di un momento di gioia, di sposini amputati, in uno scenario di guerra. E ”Family portrait”, una pesante mensola di ferro arrugginito, pende vistosamente, con i suoi portafotografie vuoti,  tenuti in equilibrio dalle stesse foto, strappate e trasformate in spessori di sostegno: equilibrio evidentemente inutile, per mensola ed oggetti che, assurdamente, non contengono nulla. Dal soffitto della galleria, un’incongrua corda di ciocche di capelli finisce in un cappio, nella costituzione di un oggetto simbolicamente punitivo, che attende il sacrificio. Opere piccole, e preziose, scatole elegantissime, contengono cuori intagliati nell’acciaio, e tratti dai disegni di un manuale di medicina anatomica: <Forever Yours>, un’incisione sulla superficie, nel perimetro di lama tagliente. La mostra propone più percorsi, apologhi frammentari, brevi, scaturiti da un’intensa riflessione, visioni drammatiche e romantiche, ma anche ironiche, che, nella loro paradossale coesistenza, costruiscono una visione oggettiva della contemporaneità.

Opere in mostra:
FAMILY PORTRAITS, 2005
mensola di ferro, cornici di ferro vuote, fotografie di famiglia strappate, filo rosso

I AM WAITING FOR YOU, 2005
lungo cappio fatto di capelli, forcine per capelli, motore per rotazione

DALLA PARTE DEL MANICO, AMORE, 2005
mensola di legno, coltello, incisione

OH HAPPY DAYS, 2005
abiti da cerimonia in tessuto mimetico

FOREVER YOURS, 2005
cuore anatomico in  acciaio, scatola di velluto rosso

WALLPAPER, 2005
Installazione della carta da parati con fori di pistola dipinti



Exhibited artworks:
FAMILY PORTRAITS, 2005
iron shelf, empty iron frames, torn family photographs, red thread

I AM WAITING FOR YOU, 2005
long loop made of hair, hairpins, motor for rotation

DALLA PARTE DEL MANICO, AMORE, 2005
wooden shelf, knife, engraving

OH HAPPY DAYS, 2005
ceremony dresses in camouflage fabric

FOREVER YOURS, 2005
anatomical steel heart, red velvet box

WALLPAPER, 2005
Wallpaper installation with painted gun holes


Frontalità e ritorno
testo di Beatrice Buscaroli

La tematica del disastro, dell’incombente, di tutto quello che minaccia la nostra vita quotidiana e le nostre certezze è sicuramente uno degli argomenti più trattati a livello sociologico ed economico. Il pensatore francese Paul Virilio, un paio d’anni fa, mise in scena una interessantissima mostra alla Fondazione Cartier a Parigi sull’estetica della catastrofe. Si passava da una stanza all’altra dove inondazioni, terremoti, naufragi, crolli, incendi e inabissamenti rimettevano in discussione una serie di certezze acquisite dalla società, rendendole così effimere e prive di significato. E’ un punto di vista nuovo sul nostro futuro, un modo differente di concepire le priorità da dare alla propria esistenza e di frequentare più consapevolmente il proprio tempo.
Nella sua “Estetica nella distruzione”, Loredana Longo si pone questo problema con autorevolezza. Il suo lavoro è permeato da un’energia genuina e frontale. Il suo avvicinamento alle problematiche che analizza non scende a compromessi, né sceglie la citazione per prendere l’applauso.
Troppo spesso le opere delle ultime generazioni di artisti affrontano tematiche esplosive presentandosi disarmati e limitandosi a sussurrare accuse sociali col tono mellifluo del politicamente corretto.
Loredana Longo scende in campo con le sue urgenze più personali, mettendosi in gioco completamente.
Le vicende che ci narra riguardano la sua vita di giovane donna del Sud, le passioni nate dal confronto con un territorio spesso saccheggiato, umiliato, martoriato da abusi e da sconcezze colluse con una politica malsana: Ma non per questo ripudiato. Anzi, amato di un amore intenso e “disperato”. Le sue storie sono intrise di partecipazione e passionalità, intessute di un orgoglio femminile che ci narra dei suoi capelli lunghi 80 centimetri. Da sempre. Le sue opere sono intensi fermo-immagine di una realtà collettiva e sociale nella storia e, allo stesso tempo, individuale nel cuore. Solo così si arriva a spiegare il looping completo che riporta Loredana dall’accusa sociale e dalla cronaca più stringente, fino alle tematiche semplici legate alle aspirazioni di ogni giovane donna: il matrimonio, i ritratti di famiglia, la carta da parati, gli oggetti d’uso quotidiano.
“Oh happy day” è un’opera in cui i due abiti da sposi sono destinati a soggetti privi rispettivamente di un braccio e di una gamba. Sposi mutilati. Non sono realizzati in seta fine o tulle, ma in un inequivocabile tessuto mimetico che ci proietta immediatamente in Palestina, in Iraq, in Bosnia, nelle zone martoriate del mondo. Tuttavia l’idea riporta a Loredana e al suo mondo intimo e personale, ma anche alla funzione sociale e tradizionale della celebrazione, della consacrazione. E’ urgenza autentica quella che muove l’artista ad esprimersi, rivisitando i punti più intensi del proprio immaginario.
E’ un immaginario che frequenta l’idea dei ritratti di famiglia e della loro esposizione ordinata sulle mensole di casa. Con “Family portraits” la Longo mette in discussione l’istituzione della famiglia e i suoi farraginosi meccanismi, le sue contraddizioni, le ipocrisie. Ma i portafotografie vuoti e la mensola cadente esprimono un desiderio di intensità rinnovato, aspirando ad un rinnovamento della famiglia su nuove basi, non alla sua estinzione.
Lo stesso cappio che scende dall’alto, realizzato con i capelli dell’artista (“I’m waiting for you”) sono un modo diretto per mettersi in discussione: uno stratagemma per parlare del corpo di Loredana e del suo orgoglio femminile e simultaneamente per mettere in guardia chi volesse abusarne o chi pensasse di approfittare di una debolezza femminile che non c’è più, passata, superata dalla storia. Anche gli oggetti (“Forever yours” e “Dalla parte del manico”) appartengono allo stesso immaginario, all’idea del dono, del testimone. Sono parte integrante della stessa tradizione, della stessa educazione, dello stesso retroterra che appaiono sotto una luce nuova che rivendica una forza propria, un’aggressività dissuasiva. Gli oggetti rispondono all’etica del dono, sono confezionati impeccabilmente ma sono implicitamente dotati di quella personalità che li rende minacciosi e dotati di significati più attuali.
Anche in questo caso l’artista non si sottrae alla propria storia; non illude e si illude di frequentare Bronx immaginari e fasulli: è la sua Terra a raccontare, il suo corpo a rivendicare, la sua femminilità a denunciare.
E’ semplicemente Loredana Longo a parlare. E la sua urgenza coinvolge e convince. 


Testo di Gian Luca Tusini

Il lavoro di Loredana Longo sollecita alcune meditazioni su ciò che l’estetica ha ormai acquisito da tempo, almeno da un paio di secoli, ma che ha dovuto aspettare l’arte del Novecento per esprimersi compiutamente.
Il concetto di bellezza, nella storia dell’estetica classica, è sempre andato di pari passo con quelli di regolarità, proporzione, moderazione, equilibrio; alla bellezza esteriore corrispondeva la bellezza morale e sulle bellezze approntate dalla natura l’artista doveva comunque intervenire per correggerle, togliendo le parti meno presentabili.
È da Kant in poi che bellezza naturale e bellezza artistica seguono strade diverse e su questa distinzione fondamentale poggiano tutti gli esiti artistici degli ultimi duecento anni. Ma ancor più è la lezione di Baumgarten ad aver spostato il problema dalle regole astratte di un bello morale alla percezione sensitiva dell’uomo, ponendo le premesse per un coinvolgimento globale dei sensi.
Con questo prologo facile e compendioso ma paludato si può forse al meglio intendere, a contrariis, il lavoro di Loredana Longo e la sua poetica che guarda all’ Estetica nella distruzione.
Loredana trasfigura e rifigura oggetti e dinamiche della attualità, con una controllata dose di spaesamento.
Ma soprattutto ogni opera è frutto di una attenzione meticolosa, di una cura maniacale, di un algido controllo che soddisfa il nostro senso dell’ordine ma che nasconde, alla prima, la radice oscura che sottende l’intera operazione.
Dunque, un travestimento glamour, oppure una messinscena concettuale con un po’ di colore in un circuito chiuso dal loop ripetitivo?
Nulla di tutto questo, poiché gli interventi pensati da Loredana Longo disvelano a poco a poco una “profondità abitata” di dolore, di morte, di terribilità per nulla assopite dalla eleganza degli allestimenti.
I quotidiani drammi segreti, le violenza pensate e inespresse, le tragedie del mondo che ci sommergono mediaticamente — drammi che Loredana raffredda e normalizza nella ricercata eleganza della sua prassi — trovano un a loro forma artistica, una loro natura estetica meditata e perfidamente elegante.
Ecco allora gli abiti da cerimonia nuziale in tessuto mimetico; una eccentricità che potrebbe comparire su una rivista modaiola se non fosse che quegli abiti sono per persone amputate di qualche arto, che anche nel giorno più bello non possono dimenticare gli orrori della guerra. O alcuni portafotografie vuoti e arrugginiti, in precario equilibrio, parlano di usura del tempo, di provvisorietà, di tragici eventi e di un tempo felice ormai passato.
Di amore e morte parla un cappio minaccioso che pende dal soffitto: una corda intessuta fatta di capelli umani cresciuti negli anni, pazientemente curati per preparare accuratamente un esito delittuoso con una ineffabile  e beffarda firma feticistica.
Preziose e intoccabili sono le lame micidiali a forma di cuore confezionate lussuosamente, pronte a far scorrere quel sangue che incessantemente pompano, alludendo con velenoso sarcasmo alla reversibilità amore-odio. Oppure, la lama priva di manico il cui titolo suona come un mellifluo e minaccioso invito nell’imminenza, forse, di un gesto irreparabile, covato da anni.
O ancora una bella carta da parati dove i buchi delle pallottole diventano un pattern decorativo che svela la sua vera natura solo alla visione da vicino, ribaltando all’insegna dell’intimità domestica l’ennesima tragedia soffocata nell’oblio; e uno sgabuzzino misterioso, disordinato e luminoso, l’unico allestimento ove un voluto disequilibrio urta il visitatore che altrimenti viene vaccinato lentamente dalla piccola ma potente dose di veleno che ogni intervento inocula, segretamente, nella sua anima.